Si è celebrata a Roma lo scorso 20 novembre la Quarta Giornata Mondiale delle Epatiti e le onlus promotrici, espressione diretta della comunità medico-scientifica e dei pazienti, hanno denunciato la mancanza di un Piano Nazionale della Prevenzione, nonostante l’epatite C sia la causa del più alto numero di decessi tra le malattie infettive trasmissibili nel nostro paese, con circa 7/8000 decessi/anno tra cirrosi ed epatocarcinomi.
Il 1 dicembre si è celebrata l’altra Grande Giornata per la lotta all’AIDS e i dati diffusi indicano che 1 sieropositivo su 4 è inconsapevole del proprio stato di infezione e che la diagnosi tardiva dell’infezione da HIV è uno dei principali ostacoli per il controllo della diffusione della malattia.
Il Sistema trasfusionale Italiano, dopo 30 anni dallo scandalo sul sangue infetto che ancora è fissato nell’immaginario collettivo come un freno “emotivo” verso la trasfusione come risorsa terapeutica “sicura”, in realtà , grazie all’introduzione obbligatoria delle metodologie di amplificazione degli acidi nucleici (NAT) per i virus dell’epatite B (HBV) e dell’ epatite C (HCV) come anche per il virus dell’immunodeficienza umana (HIV) ha portato grandi vantaggi in ambito di sicurezza trasfusionale.
Considerato che è impossibile, in qualunque atto umano, azzerare il rischio, si può affermare che la percentuale residua di contrarre un’epatite virale attraverso la trasfusione ha subito una drastica riduzione rispetto al passato, tale da consentire oggi di definirlo nell’ordine di 1 vs milioni di donazioni, rispetto alle migliaia o centinaia del passato. La stessa “fase finestra” (periodo in cui il test per gli anticorpi è negativo pur essendo presente il virus) è stata estremamente ridotta dalle tecniche attualmente disponibili.
Nell’approccio globale del Sistema Trasfusionale è teso alla riduzione dell’epatite trasmessa mediante la trasfusione e comunque il miglioramento della qualità dei test di screening per HBV e HCV, riveste un ruolo chiave, parimenti ad una rigorosa selezione del donatore (l’Italia è tra i paesi nei quali a selezionare il donatore è un medico) ed il modello di raccolta di sangue è basato su donatori volontari, non retribuiti e in prevalenza periodici.
In Italia vi è altresì un controllo attentissimo di tutto il percorso trasfusionale (dal momento della donazione a quello della trasfusione) per cui ogni unità di sangue è tracciata e si è in grado di risalire, a distanza anche di trent’anni, sia al donatore che al soggetto a cui quel sangue è stato trasfuso. Il monitoraggio costante della prevalenza e dell’incidenza d’infezioni correlate alla trasfusione, inoltre, risulta essere un modo per misurare l’efficacia di queste strategie di riduzione del rischio e per ottenere maggiori informazioni utili a rendere sempre più performanti gli interventi in materia di sicurezza trasfusionale. Tutti i prodotti derivati dal sangue (fattori della coagulazione, albumina, complesso protrombinico, immunoglobuline aspecifiche e specifiche), inoltre, sono oggi controllati con metodi ad altissima sensibilità e sottoposti ad efficienti processi di sterilizzazione/inattivazione virale.
La sfida della sicurezza è, però, un obiettivo sempre attuale, tanto che il Sistema dovrà tendere al continuo avanzamento dei già elevati standard di sicurezza e ad un miglioramento della vigilanza delle patologie causate da virus emergenti e/o riemergenti, compresi quelli responsabili delle epatiti nell’uomo.
Per avere un quadro completo anche dal punto di vista epidemiologico, abbiamo rivolto alcune domande al Direttore del Dipartimento delle Malattie Infettive, dottor Giovanni Rezza vai all’intervista.
Infine ecco le risposte che alcuni ragazzi intervistati dalla nostra redazione hanno dato alle domande sulla conoscenza delle malattie trasmissibili attraverso il sangue e il rischio percepito di contrarre il virus HIV attraverso una trasfusione: