Sono tanti i tormentoni dell’estate, dai motivetti canticchiati sotto l’ombrellone, agli amori fra vip, alle mode lanciate da star o stilisti. Fra tutti, l’evergreen resta il tatuaggio. Fatto per sugellare il rapporto di coppia o sentirsi un supereroe, salvo poi pentirsene e ricorrere alla cancellazione. Al riguardo, in Italia, secondo i dati raccolti dall’Associazione Italiana di Chirurgia Plastica Estetica (Aicpe) solo nel 2014 le rimozioni sono state 12mila e non sempre l’operazione ha dato il risultato sperato, perché spiegano gli esperti, l’efficacia del trattamento dipende da colore, profondità, densità e tipo di pigmento e dal fototipo del paziente, ovvero dal colore della pelle.


Dunque, quel momento di spensieratezza che ci porta ad una decisione non sempre ragionata, si traduce in un procedimento, quasi sempre doloroso, talvolta lungo e  forse permanente.

Una recente ricerca condotta dall’Università di Roma 2, Tor Vergata, su 2500 studenti liceali, attraverso un questionario anonimo, ha evidenziato come il 24% di essi abbia avuto complicanze infettive; solo il 17% ha firmato un consenso informato e solo il 54% è quasi sicuro della sterilità degli strumenti che sono stati utilizzati. Di contro, nel mese di giugno, la rivista Hepatology, ha pubblicato uno studio “Association of tattooing and hepatitis C virus infection: a multicenter case control study” dove si dimostra come l’infezione da Hcv principalmente si trasmetta attraverso: 1) riutilizzo di aghi monouso; 2) la mancata sterilizzazione del materiale; 3) il riutilizzo d’inchiostro contaminato con sangue infetto. Ma il dato scientificamente più interessante sta nei tempi di sopravvivenza del virus rilevati negli aghi e nell’inchiostro, variabile da pochi giorni nell’ambiente a quasi un mese nell’anestetico: dato ancor più preoccupante se incrociato con la scelta degli adolescenti verso locali  spesso economici e non a norma di legge. 


Infatti gli infettivologi riscontrano che i casi rilevati di epatite contratti attraverso piercing e tatuaggi sono strettamente correlati a setting che non rispettano le norme di igiene in cui il “cliente” si espone ad un rischio molto superiore che in caso di ambienti professionali, ove la procedura è eseguita correttamente e in modo asettico. Recentemente è stato stimato che, nel nostro Paese, una quota di casi di epatite C acuta superiore al 10% è attribuibile ai trattamenti estetici. Inoltre, esclusi i tossicodipendenti dall’analisi, condotta dall’osservatorio Seieva (Sorveglianza delle epatiti virali acute), si può stimare che coloro i quali si sottopongono al tatuaggio hanno un rischio 3,4 volte più alto di contrarre l’epatite C a chi non si sottopone. Analogamente, per quanto riguarda il piercing, il rischio di contrarre l’epatite C è 2,7 volte maggiore rispetto a chi non se lo fa applicare.


Ma allora, qual è la vera motivazione che porta a dipingersi la pelle nelle più svariate fantasie, anche sottoponendosi a sedute più o meno fastidiose, rischiando di contrarre malattie ancora più dolorose e magari di tenersi in modo indelebile un segno che per noi non assume più quel significato identitario che aveva nel momento in cui ci eravamo innamorati di una persona o di un ideale?Il tatuaggio vanta una storia millenaria, di oltre cinquemila anni.


Termine che deriva, secondo le testimonianze del capitano James Cook, dall’onomatopeico “tau-tau”, di origini tahitiane, e che sta ad indicare il rumore del picchiettio dell’ago di legno sulla pelle. Prime testimonianze si trovano sul corpo della mummia Otzi, rinvenuta sulle Alpi e risalente a circa 5300 anni fa. In Egitto le danzatrici erano tatuate con ornamenti, mentre i Celti si decoravano con figure animali, che adoravano come divinità. I romani iniziano a tatuarsi in seguito alle battaglie con i britannici, di cui ne ammirano la forza.    

Oggetto di ricerche da parte di psicologi, sociologi e tanti altri studiosi, il tatuaggio, la cui storia contemporanea nel mondo occidentale inizia verso gli anni Sessanta del Novecento, rappresenta un marchio di riconoscimento, che sia di esibizione o di differenziazione. Analizziamo alcune riflessioni per comprendere un po’ di più il mondo dei tatuati.

Il corpo ha confini che segnano un limite con il mondo esterno ed è proprio questa linea di demarcazione che viene ad essere individualizzata a tal punto da essere unica per ognuno, per comunicare significati e messaggi del tutto personali.

La valenza comunicativa del tatuaggio risiede proprio nella capacità di varcare i confini individuali e creare uno scambio con la dimensione collettiva sociale. (Marucci Gabriella, Strategie del corpo, Vol. 7 di Antropologia e storia, Bulzoni, 2008).


Secondo alcuni studiosi della cultura post-moderna, l’essere originali significa non più appartenere ad una moda, bensì essere moda, crearla con i mezzi che ognuno ha a disposizione. È la rivincita delle sub-culture, che emergono, in quanto ne hanno diritto. Tatuaggio, dunque, come sinonimo di appartenenza ad una determinata sottocultura, non solo giovanile, ma sicuramente sempre più individualizzata.

    
Ed è dopo aver visto sfilare per le strade tatuaggi delle più svariate nature, i tribali, i fiori di ogni specie e colore, nomi e simboli di ogni tipologia, proprio ora si cambia tendenza. Il tatuaggio? Sì, ma a punto croce, schema che potrebbe ricordare il modello di composizione delle immagini tipiche dei pixel. Digitale e reale si confondono, dunque, ma quale avrà la meglio?  E’ questo uno dei tormentoni dell’estate 2015.


Valentina Pace